Dal XVI al XVIII secolo, sono attestati alcuni documenti, che riferiscono le questioni civiche e descrivono la situazione fondiaria del tempo. Il territorio, sottoposto al regime feudale, pose i cittadini nella necessità di regolare l’uso delle risorse, di perseguire l’equa ripartizione delle medesime e di tutelare lo stato della proprietà privata. Una prima questione civica concerne l’uso delle fonti acquifere, che hanno costituito uno dei punti di attrito tra Collelongo e Villa Collelongo. Un documento notarile attesta che fino al 1583 l’Università (Comune) di Villa Collelongo aveva consentito ai cittadini di Collelongo di abbeverare gli animali presso le fonti di S. Leucio (fonte dritta e fonte canale o fonte vecchia) e di sostare con greggi ed armenti sotto l’ombra delle piante circostanti. Però ai collelonghesi era posto il divieto di « coltivare, casare, pascolare » nel territorio della Villa ed incombeva l’obbligo di costruirsi le strade per raggiungere le fonti, con l’impegno di non danneggiare i terreni limitrofi. A fronte delle concessioni, l’Università (Comune) di Collelongo avrebbe corrisposto alla Villa la somma di carlini 37 e grana 5 per ogni anno, fermo restando il pagamento della bonatenenza sui beni posseduti nel territorio della Villa.
L’evoluzione di tale questione si registra nell’atto notarile del 25 agosto 1696 che viene redatto presso il palazzo baronale del Duca Sannesio a Collelongo. I deputati delle due Università, al fine di evitare le controversie circa l’uso delle fonti di S. Leucio, individuano una zona promiscua che partiva dal Colle Aringo e, attraversando il campo coltivato, giungeva fino alla cima del monte Ara dei Merli; nella direzione opposta, attraversava la Valle di Cerro e giungeva fino alla vetta del Frontone. I luoghi promiscui intorno alle fonti si estendevano dai piedi della chiesa di S. Leucio fino al molino vecchio ed ancora oggi questa porzione di territorio della Villa conserva l’antica denominazione di “lesche della Villa” per la funzione promiscua assolta nei riguardi di Collelongo.
Per effetto di questa promiscuità, la Villa riceveva da Collelongo la somma di 250 ducati, in unica soluzione, mentre venivano confermati i pagamenti annuali stabiliti « nell’istrumento tra loro celebrato fino all’anno 1583 ».Nonostante le pattuizioni notarili, qualche abuso doveva pur verificarsi, se il Duca Sannesio, nel 1700, era chiamato a comporre bonariamente la vertenza civile relativa all’uso delle acque e alla promiscuità del tratturo, che dal Castelluccio conduceva alle fonti. Anche in epoca anteriore sono attestate alcune liti che avevano portato le due Università alla rissa del 1624.Dopo l’eversione della feudalità, le discussioni vengono riproposte innanzi alla Commissione feudale ed il verbale del 1811 dispone le determinazioni del caso. Ai cittadini di Collelongo veniva mantenuto l’uso delle fonti di S. Leucio per la prestazione annua di carlini 37, mentre il mantenimento del tratturo comportava la cessione alla Villa di 23 coppe di territorio in contrada “Scalelle”, nonché il pagamento di carlini 20 e non più ducati 10. La riduzione di quest’ultimo compenso veniva giustificata con il numero maggiore degli abitanti di Collelongo e con il mantenimento della proprietà ai concedenti dei terreni promiscui. L’uso delle fonti non era un fatto marginale, anzi si poneva come problema prioritario ed esistenziale, specialmente durante i periodi di siccità. Pertanto, in tale quadro si attesta la questione civica circa l’uso delle fonti di S. Leucio e, in tale contesto, la tradizione riconosce la pregevole qualità di quell’acqua e la perenne alimentazione dalle falde sotterranee. Una seconda questione civica prospetta i problemi emersi tra i cittadini e il Duca Pignatelli, feudatario del luogo. Alcune pressioni in direzione dell’eversione feudale sono attestate sullo scorcio del XVIII secolo. Nel 1781 il Duca inviava alla Regia Camera della Sommaria una dichiarazione in cui sosteneva che le cimate erbose delle montagne erano di suo esclusivo dominio, mentre le parti boscose sottostanti potevano essere utilizzate dal cittadini dell’Università di Villa. Il privilegio del Pignatelli consentiva di affittare gli erbaggi ai “locati” di Puglia, infatti, il duca riceveva dai locati di Gioia la somma di 400 ducati a titolo di fida (fitto annuale). Al contrario, i naturali del luogo, non locati, potevano utilizzare i pascoli feudali per un tempo determinato (dopo il 24 giugno) e per lo stretto bisogno, cioè senza pernottare con il bestiame e senza commerciare. La situazione di svantaggio ed il rigore dei vincoli erano certamente esagerati, sicché mancava il rispetto dei divieti ed il Pignatelli, nel 1783, doveva convenire in giudizio gli abitanti di Collelongo. La corte locale, dipendente dalla regia Udienza di L’Aquila, aveva accertato l’uso dei pascoli feudali prima del 24 giugno e l’avvenuto pernottamento in quei luoghi, giacché il bestiame non era stato ricondotto negli stazzi del bosco civico.Con decisione della Sommaria di Napoli, i naturali di Collelongo venivano mantenuti nel «possesso di pascere e pernottare dopo il 24 giugno e soltanto per il proprio bisogno», mentre, se avessero agito diversamente, dovevano pagare la fida al Duca. In tal caso, infatti, come per i locati si sarebbe trattato di un eccesso di bisogno, per industria e commercio con i forestieri.
La decisione non era pacifica, né duratura, in quanto nel 1789 i collelonghesi rinnovavano gli abusi e la corte locale doveva incaricare Romualdo e Francesco Bianchi, quali periti designati dal Consiglio di Villa, per l’accertamento del danno e la localizzazione degli stazzi abusivi. Però anche gli abitanti di Villa cominciavano ad abusare degli usi civici e, nel 1793, un’altra decisione della Sommaria di Napoli li restringeva agli usi propri e permetteva il commercio soltanto fra i naturali del luogo. La piega degli eventi segnava ormai un crescendo di abusi e, con i primi anni dell’ottocento, nemmeno i locati, naturali del luogo, volevano più pagare la fida; così, il crollo del sistema feudale si faceva inevitabile e con le storiche leggi del 1806 veniva meno il fondamento delle ingiuste imposizioni.Questa prospettiva di progresso e di evoluzione connota di valore civico e di significato sociale le controversie dei cittadini contro l’ultimo feudatario del luogo. Una terza questione è relativa alla ripartizione dei territori feudali. Nella divisione del demanio ex-feudale il verbale di esecuzione della relativa sentenza assegnava al Comune di Villavallelonga il monte Aia dei Merli, Marcolano, Schiena di Cavallo, Costa del Ceraso e Scatafosso, mentre all’ex-feudatario veniva attribuito il Pratillo, la Fossetta e Macchiatavana, anche se il Duca, evidentemente scontento, si riservava di protestare « innanzi chi si conviene ».Al pari del Duca, sia Collelongo, che Balsorano, si affrettavano a protestare con motivi diversi; ma il consiglio dell’Intendenza di L’Aquila confermava le ripartizioni dei commissari regi e rigettava i ricorsi proposti. In merito, Collelongo si lamentava di non essere stato interpellato al momento in cui si dovevano dichiarare le pretese sulle montagne feudali e si opponeva all’assegnazione in favore della Villa, non essendo sufficiente che il Comune avesse rivendicato quelle montagne solo perché erano state possedute in feudo dal Duca Pignatelli.
La tesi di Balsorano, sostenuta anche per conto di Morrea, era in parte diversa; infatti, la divisione, ritenuta clandestina, non avrebbe tenuto in alcun conto i diritti di Balsorano che erano fondati sull’atto di vendita del 14 aprile 1572. In tale antico documento si conveniva il passaggio del feudo di Balsorano da Costanza Piccolomini a Gio: Carlo Silverio Piccolomini e nella supplica presentata in quel tempo per ottenere l’assenso regio alla vendita, si precisava che la vendita era effettuata « non inferendo pregiudizio alcuno a dette terre di Balsorano, Morrea e casali circa lo ius et actione de pasculare, acquare e pernottare in dette montagne che sono tra dette terre e detto castello di Collelongo e Villa Collelongo ut supra ». Mancava, però, il successivo atto di vendita tra Piccolomini e Sannesio, anche se si osservava che il nuovo acquirente non avrebbe comunque potuto ricevere i diritti di terzi. La rimostranza di Balsorano per ottenere il Monte Acciarella e Monte Pano (campo di grano), già aggregati al Comune di Villavallelonga, si avvaleva di altre due considerazioni: il peso della fondiaria e lo scolo delle acque riversate su Balsorano. Tuttavia, sia l’istanza di Balsorano, sia quella di Collelongo, venivano rigettate, perché le pretese erano tardive, dovendo essere proposte a suo tempo innanzi alla Commissione feudale; oltretutto, risultavano sfornite di sicure prove di possesso che consigliassero di rivedere le decisioni. Fra l’altro, con una memoria del giugno 1798, il Duca Pignatelli aveva informato che « la Università di Balsorano pretendeva pascolare, legnare e pernottare sui demani feudali di Collelongo e di Villavallelonga, e d’altra parte negava questi usi civici ai naturali di quelle due terre », pertanto dimostrava «il niun diritto della Università di Balzorano a quelli usi». Circa la situazione fondiaria e lo stato delle proprietà private, alcune fonti descrivono i beni accatastati nel periodo compreso tra il XVI e il XVIII secolo.Un antico catasto dei beni burgensatici e feudali, compilato nel XVI-XVII secolo, fornisce l’elenco dei forestieri che possedevano terreni nel territorio di Villa Collelongo. Le iscrizioni più significative si riferiscono al “Notar her Vincenzo Longo, a Gio:Battista de Notar Donato, al Dottor her Horatio Antonucio, a Don Cicco Silvano, a Don Paulo Lanciono, a Don Fabio Mapele, ai beni dell’Ecclesia Santi Thoma e alla Tabula del Santissimo Sacramento”. Trattandosi di beni burgensatici e feudali di forestieri, non è agevole una chiara identificazione dei soggetti intestatari; tuttavia, per la chiesa di S. Tommaso è possibile formulare una ipotesi. Dal Febonio viene attestata la «ruralem Ecclesiam S. Toma in fossa de Villa» (contrada di Trasacco), che era di patronato della famiglia de Henricis, la quale, nel 1385, l’aveva donata alla chiesa di S. Cesidio; poiché nel XIV secolo la detta famiglia aveva posseduto in feudo la Rocca di Cerro (attuale Villavallelonga), è possibile che poi abbia ceduto buona parte dei terreni alla citata chiesa di S. Tommaso, i cui beni sono descritti in 18 cartelle. Questo antico catasto potrebbe aver dato origine alle denominazioni di alcune contrade; l’intestazione di Gioanne e Simone Carlino potrebbe rinviare alla contrada Ciarlino e quella di Benedetto e Giulio Callarone potrebbe rinviare al Colle Callararo. Molti nomi, che precisano l’ubicazione dei terreni, hanno come termine di riferimento l’acqua; così le fonti (“iacero, samuco, paloma, tricaglie, de le donne, de la strea, de Santo Antonio”) e ancora le fonticelle, il rio de Santa Maria, l’acqua santa, il pantano, il puze, il foxato vecchio.Alcune terre vengono ubicate al collo de la Cornacchia, alla noce di Tamax (Tomax), al “monte Ritonno”, al “passo de la Reperella”, al “ponte de la Liscia”, al “prato della Moneca”, alla via antica, all’olmo, al vallone, alle cese. I confini si descrivono da piede, da capo, iuxta (accanto) con la precisazione dei confinanti e, fra questi, spesso vengono citati il Capitolo e la Chiesa, che dovrebbero indicare il Capitolo di S. Leucio e la chiesa di S. Nicola, compresi nel catasto dei proprietari del luogo e non in quello dei forestieri. Un altro antico catasto, del 1691, documenta la situazione fondiaria a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo e si riferisce in prevalenza ai proprietari del luogo; presenta, infatti, molti nomi che trovano riscontro nelle attuali denominazioni delle famiglie e nei rispettivi cognomi. Le descrizioni dei beni sono raccolte in un volume e le intestazioni dei singoli proprietari contengono spesso uno stemma genealogico o un messaggio inseriti fra le lettere dei nomi e dei cognomi.
Le iscrizioni cosi decorate testimoniano l’attaccamento alla terra natale da parte della gente del luogo e presentano una particolare qualificazione tipologica. Il messaggio di Ovidio Bianco è assai significativo, anticipando il principio giuridico dell’usucapione: «justa sunt omnia possidentia et ideo omnes conticunt »; cioè, tutti i beni posseduti sono legittimi e perciò tutti tacciono.L’affermazione di Floriano Coccia è semplice ed incisiva: “hoc feci”, cioè “questo ho fatto”, con ovvio riferimento ai beni ivi a lui intestati.Un messaggio intriso di filosofia e di religione è invece quello di Orazio Coccia per il quale « in via virtutis nulla est via »; cioè, non c’è altra strada sulla via della virtù.Il detto catasto rileva anche i beni della Ecclesia Sancti Nicolai con la nuova denominazione del luogo (Villa Vallis Longe), che sembra apposta in epoca successiva, e la tavola del Capitolo di S. Lucio, la cui iscrizione appare corretta in Leucio e più sotto in Lutio (Luzio). Le altre intestazioni relative ai luoghi sacri sono quelle della Cappella di S. Carlo e di Santa Monica (per Villavallelonga); inoltre, la Cappella del Purgatorio e la Cappella della Privazione (per Collelongo). Infine, alcune intestazioni sono relative a personaggi dei paesi vicini: Carlo Lutio di Balsorano, Francesco Orsino e Vienna sua figlia, Pietro Paolo Botticella, il dotto fisico Giulio Cesare Rossi (deceduto nel 1714) e il clerico Giuseppe Ingani di Collelongo, al quale ultimo viene attribuita una terra in territorio di Villa Collelongo, non ancora, cioè, con la nuova denominazione di Villavallelonga. A differenza dei catasti antichi, che sono stati compilati in esecuzione della prammatica di Ferrante d’Aragona del 1467, più volte confermata e rinnovata, i catasti onciari, richiesti da Carlo III di Borbone nel 1740, introducono il sistema delle rivele da parte di ciascuno ed il successivo apprezzamento. Le rivele apprezzate venivano trascritte nei libri onciari, così detti perché la moneta di ragguaglio era l’oncia (pari a sei ducati).I libri onciari di Villavallelonga, compilati nel 1753, documentano in modo sistematico lo stato della popolazione e le condizioni economiche con l’indicazione della relativa tassazione. La sottoscrizione delle firme veniva autenticata con l’apposizione di un sigillo (timbro) che era lo stemma dell’Università.
Quello di Villavallelonga raffigura il Patrono del luogo, S. Leucio vescovo, che è contornato dall’iscrizione “S. Leucius Villa Vallelonga 1747”, con un legame veramente significativo fra evoluzione del culto a S. Leucio e fondazione dell’Università di Villavallelonga . Il primo volume comprende gli atti preliminari e contiene lo status animarum che registra tutte le persone e la relativa età; il computo delle anime fa registrare 802 abitanti nel 1753. Il dato economico e fiscale viene indicato nel libro della tassa che mette in rilievo la somma complessiva di 959 ducati da pagarsi all’esattore Giuseppe Pilaroscia nella misura specificata per i singoli proprietari.Nel secondo volume vengono indicati i beni della chiesa parrocchiale di S. Nicola, al cui titolo ancora non risulta aggregato S. Leucio, e le tavole di tre cappelle poste all’interno di tale chiesa: quella di S. Carlo, di S. Monica e del SS. Rosario.Nel terzo volume sono citati tutti i proprietari del luogo, gli ecclesiastici, i bonatenenti forestieri e le cappelle site nella chiesa parrocchiale di Collelongo (la cappella di S. Matteo dei Botticella e la cappella del SS. Rosario dei Floridi).Questi documenti rappresentano una importante fonte storiografica, anche se il loro vigore è stato breve. Infatti, l’invasione dei francesi nel Regno di Napoli comporta, fra le molte innovazioni, anche la compilazione del catasto provvisorio, avviato nel 1809 e concluso nel 1817 (quello che oggi, impropriamente, viene chiamato catasto antico, per essere anteriore a quello attuale che è stato impiantato nel periodo fascista).
Tratto dal libro “Storia di Villavallelonga” del prof. Leucio Palozzi