Nel corso del XVIII secolo si registra la fondazione dell’Università di Villa Vallelonga, la cui esistenza storica segna gli ultimi decenni del regime feudale. Il cambiamento del nome non è stato un fatto automatico ed ha richiesto un processo di trasformazione.Mentre l’atto ufficiale di conferimento della nuova denominazione ha di certo una datazione precisa che è quella del relativo provvedimento amministrativo, non sempre è possibile dirimere con certezza le due denominazioni e ritrovarle sistematicamente divise in ogni atto e nel linguaggio comune. Come ogni innovazione richiede un processo di adattamento, così il passaggio dalla denominazione di Villa Collelongo a quella di Villa Vallelonga occupa lo scorcio del XVIII secolo che viene a caratterizzarsi per la datazione di documenti con la citazione indifferenziata delle due denominazioni.
Al fine di stabilire la predetta datazione, relativa alla fondazione dell’Università di Villa Vallelonga, o quantomeno di avvicinarla il più possibile, è necessario riferirsi al primo documento ufficiale che abbia contenuto la nuova denominazione. A questo riguardo la testimonianza che citiamo è certamente significativa e attendibile, in quanto si riferisce allo “stemma di Villa Vallelonga” che deve essere stato coniato all’atto della fondazione della omonima Università (Municipio). La figura inserita nel volume Storia di Villavallelonga (ivi p. 201), illustra questo importante documento, la cui riproduzione consente di constatare l’assunzione di S. Leucio nel simbolo dell’Università con l’iscrizione “S. Leucius Villa Vallelonga 1747”. Questa datazione, contenuta nello stemma, dovrebbe testimoniare l’anno di fondazione dell’Università di Villa Vallelonga e, quindi, dovrebbe rappresentare la prima citazione ufficiale della nuova denominazione. Alla predetta fondazione fa anche riferimento l’iscrizione che attiene alla donazione della reliquia di S. Leucio, del 1778, con l’attestazione del patronato laico. Posto il problema della fondazione della “Domus Universitatis Villa Vallislonge”, è ora necessario indagare le caratteristiche della nuova istituzione che viene a segnare la conclusione di un’epoca storica che convive con il Duca Cesare Pignatelli il residuo periodo di feudalità e annuncia il sopraggiungere di tempi nuovi con la rivoluzione napoletana e l’introduzione nel Regno di Napoli degli ordinamenti francesi. Le popolazioni e le amministrazioni locali sono investite di concreti mutamenti con le leggi di eversione della feudalità (1806). La natura feudale delle Università lascia il posto ai moderni Comuni (Municipi), che respingono la figura del sovrano come assoluto padrone e proprietario di tutto il territorio del Regno.
Durante il periodo feudale, la personalità del centro abitato era stata individuata nella Universitas civium cioè nell’aggruppamento di uomini che rappresentavano una unità fiscale, amministrativa e giudiziaria. Con l’avvento dei Comuni, trova espressione e si afferma quell’indizio di comunità che si era manifestato nell’opposizione alle molte e irragionevoli pretese feudali. Il carattere comunale trae appunto origine da questi elementi comunitari, che hanno sostenuto una lotta graduale e sofferta per l’acquisizione di diritti, fra i quali emerge quello della collettività di possedere un demanio. Il Duca concedeva ai cittadini la licenza di tagliare la legna, di attingere l’acqua, di condurre al pascolo il bestiame e tali usi vengono denominati “civici”. Non sempre però gli usi corrispondevano a concessioni, giacché queste erano assai ristrette nello spazio e molto limitate nel tempo; per lo più si avevano abusi che, tollerati per anni, si sono trasformati in diritti e le antiche Università da feudali sono divenute demaniali per possesso o per concessione.
In tale contesto si colloca l’esperienza del passaggio dalle Università ai Comuni e si ritrova la peculiare situazione del trapasso feudale dal Duca Cesare Pignatelli, ultimo feudatario del luogo, al Comune di Villavallelonga. Nella nuova realtà il Pignatelli dichiarava di non voler più sostenere gli antichi diritti, ma in pratica non si voleva privare delle rendite di cui godeva e si opponeva alla prescrizione dei privilegi contenuti nell’atto di investitura del feudo, che risaliva al 1752. La popolazione, da parte sua, chiedeva l’abolizione dei privilegi feudali e, con il patrocinio del sig. Camillo Liborio De Santis, il Comune di Villavallelonga conveniva in giudizio il Duca, difeso dal cavaliere Pietro Andreotti, al fine di ottenere una decisione della Commissione Feudale, appositamente istituita per dirimere le questioni insorte tra i feudatari e i Comuni del Regno.
Nell’atto di introduzione del giudizio si sosteneva che il Duca, anche dopo il 1806, continuava ad esigere il “terraggio” nella misura di una coppa di grano per ogni coppa di terreno seminato e, in tal modo, la rendita feudale veniva garantita alla semina senza subire le eventuali perdite di raccolto conseguenti alle sfavorevoli vicende naturali. Fra le altre esazioni si segnalavano le seguenti: per i terreni coltivati a ortilizi era dovuta una coppa e mezza di grano; per antica osservanza dovevano essere consegnate alcune salme di orzo; infine, per adoa e per colletta di S. Maria si dovevano versare 24 ducati all’anno.In merito alla colletta di S. Maria, così denominata all’atto della sua imposizione, per l’uso di riscuoterla a ferragosto, questa tassa traeva origine antichissima fin dai primi abusi feudali e consisteva in una prestazione annuale per vestire il Barone e i suoi familiari, perciò fu anche chiamata la “colta” dei panni. La sentenza del 10 Marzo 1810 accoglie gran parte delle richieste e regola i rapporti dei cittadini con l’ex-feudatario: la giusta esazione del terraggio, da parte del Pignatelli, doveva essere non maggiore della decima, da calcolare sul ritratto, con l’obbligo di riscuoterla nelle aie durante le 24 ore che precedevano la “tritura”, oppure si poteva esigere il peso riportato sul catasto, ma gli oneri venivano limitati ai soli terreni descritti nelle rivele; per la coltivazione degli ortaggi si permetteva l’esazione della decima del prodotto che poteva essere commutato in denaro; al contrario, le prestazioni di orzo, a titolo di antica osservanza, e la colletta di S. Maria venivano dichiarate decadute, in quanto si riferivano a diritti feudali che dovevano ritenersi aboliti in forza delle leggi eversive del 1806; infine, i cittadini venivano esentati dal pagamento dell’adoa, giacché il Duca non aveva prodotto i documenti feudali che giustificavano la richiesta e, in tal modo, subiva le conseguenze della mancata dichiarazione dei beni e della connessa evasione di imposte.
Dopo la sentenza, inizia la esecuzione delle decisioni e il 13 agosto 1810 si computa in 317 coppe l’estensione del territorio soggetto all’imposta della decima che era dovuta all’ex-feudatario per esazione del terratico. Il raccolto del biennio precedente viene stimato in 317 coppe di grano, di cui 131 nel primo anno e 186 nel secondo, in conformità alle documentazioni catastali esibite dal Comune.Inoltre il raccolto, posto a base della nuova esazione, viene fatto ascendere alla quantità di grano seminato che in media veniva moltiplicato per tre volte e poi si sarebbe calcolata la decima da corrispondere in generi o col denaro equivalente.
Il territorio feudale soggetto al terratico viene ufficialmente assegnato a 79 coloni, con l’indicazione delle relative zone da coltivare, mentre l’imposizione della decima sarà poi affrancata con la legge abolizionista dell’8 giugno 1873. Il confronto tra il periodo feudale e la nuova epoca pone in evidenza le sostanziali differenze di vita e di lavoro, ma documenta anche un rilevante cambiamento dei rapporti secolari. Dai dati forniti è possibile formulare il seguente esempio: posto a base un territorio la cui estensione era di tre coppe e determinato il relativo raccolto in tre coppe di grano, ne risulta che il feudatario prima del 1806 aveva la rendita di una coppa di grano, pari a quella del colono che doveva detrarre, dalle due coppe rimanenti, quella utilizzata per la semina; al contrario, dopo il 1806 il feudatario poteva esigere la decima del raccolto, quindi soltanto sei scudelle, mentre al colono sarebbe andata una coppa e 14 scudelle (tot. = 34 scudelle), oltre naturalmente alla quantità seminata (una coppa = venti scudelle).
Il rapporto tra le due situazioni consente di accertare una variazione di rendita che fa ricavare al colono il sestuplo del feudatario, più la quantità seminata, mentre l’epoca anteriore li poneva su un piano di parità con il ricavo di una coppa di grano per ciascuno. La produzione di allora può essere messa a confronto con la produzione di oggi, stabilendo un ulteriore rapporto fra le quantità seminate. Per una coppa di territorio si seminava la terza parte di una coppa di grano, cioè sei o sette scudelle, mentre oggi si semina, all’opposto, una quantità tripla, pari ad una coppa di grano (venti scudelle). Il fenomeno si spiega in parte con l’attuale maggiore disponibilità di investimento nella semina ed in parte con la progressiva erosione degli usi secolari, giacché i tempi feudali segnati da un criterio di esazione fondato sulla semina, anziché sul raccolto, avevano sconsigliato di seminare maggiori quantità di grano, che comportavano un maggiore rischio di investimento per il colono ed un’immediata maggiore rendita per il feudatario. Da queste comparazioni appare fondato il giudizio di Winspeare, secondo il quale il regime feudale non scaturì da una rivoluzione sociale imposta agli individui umani, ma fu una rivoluzione compiuta dagli individui umani che si impose alla società, turbandola in tutte le sue articolazioni. L’usanza di genuflettersi dinanzi a qualunque persona rivestita di autorità è stato uno dei più resistenti residui feudali e la naturale conseguenza dell’imperio dato ad una piccolissima parte di cittadini rispetto all’altra stragrande moltitudine che, invece di essere tutelata, veniva oppressa e condannata in caso di eventuale procedimento amministrativo o giudiziario per il riconoscimento di propri diritti o interessi. I punti più significativi del passaggio dall’Università al Comune di Villavallelonga si inseriscono nel contesto di una nuova organizzazione amministrativa che si trova investita di problemi diversi e assai gravosi, la cui soluzione incontra le ovvie resistenze e i molti condizionamenti ereditati dal sistema feudale. Alcuni provvedimenti predispongono istituti e adottano strumenti per un migliore e più efficace funzionamento amministrativo.Il decreto dell’8 agosto 1806 promuove una diversa divisione del territorio e ripartisce il Regno in province, distretti, circondari (poi mandamenti) e Comuni. A Villavallelonga il Comune viene assegnato alla provincia del Secondo Abruzzo Ulteriore (come era in precedenza), con sede di Intendenza (attuale Prefettura) a L’Aquila, e si trova ricompreso nel Distretto di Sulmona in Circondario della Valle Roveto. In seguito viene stabilita la dipendenza dal Distretto di Avezzano, istituito il 14 maggio 1811, e l’appartenenza al Circondario e Mandamento di Trasacco, istituiti nel 1847.
Una legge del 12 dicembre 1816 regola l’organizzazione amministrativa e pone a capo del Comune un Sindaco con le funzioni ad un tempo di ufficiale dello stato civile e di giudice conciliatore. Il Sindaco veniva affiancato dal primo e secondo eletto, e dal Decurionato, che designava le terne per l’elezione sia del Sindaco sia dei due eletti. Le strutture organizzative della società civile nella prospettiva di un cambiamento economico, sociale e culturale tentano di risolvere problemi secolari e questioni fondamentali. Da un documento del 1810 è possibile cogliere lo stato dell’istruzione, quale risulta dalle proteste di Leonardo Palozzi, eletto maestro della scuo1a dei fanciulli nel nativo Comune di Villavallelonga. L’insegnante si lamentava con l’Intendente generale della provincia di L’Aquila, perché doveva far scuola a 60 fanciulli per 6 ducati al mese e 46 annuali. I dati consentono di stabilire che l’anno scolastico in quel tempo durava circa sette mesi ed era previsto un solo maestro ed una sola scuola (unica maschile) di 60 fanciulli per una popolazione di 1225 anime. Poiché nello stesso anno (1810) è attestata la presenza di 153 maschi con meno di sette anni (circa 22 all’anno), si deve ritenere che l’istruzione primaria avesse una durata non maggiore di anni due o tre. A differenza della scuola maschile non si registrano iniziative per la istituzione di quella femminile. In merito all’onorario del maestro, la sua insoddisfazione per i 46 ducati annuali sembra giustificata, giacché al predicatore della quaresima si corrispondevano 50 ducati e al prete per lo scongiuro nei giorni di pioggia, tuoni e grandine si versavano 30 ducati; inoltre, 30 ducati annui erano dovuti per la celebrazione della messa mattutina e 24 per il cancelliere comunale (quest’ultima somma era anche la minima richiesta per l’elezione a decurione).
Al pari dell’istruzione, anche la situazione sociale non consentiva molti progressi; infatti la popolazione che veniva classificata come popolo era « una immensa moltitudine occupata per mercede in opera servile », alla quale dare « una piena e ragionata soluzione del tremendo stato di cocenti privazioni e di fatiche incessanti ».Con la proclamazione del Regno d’Italia, i cittadini hanno ancora scarsissime possibilità di influire sul proprio destino, anche se inizia un periodo di pacificazione e di progresso fino al chiudersi del secolo; il diritto elettorale è limitato ai cittadini maschi che pagavano un minimo di 40 lire per le imposte dirette e dei circa 1800 abitanti soltanto 101 erano gli elettori amministrativi ed appena 16 quelli politici, compresi nel collegio di Pescina. Il Sindaco, non più eletto dal Decurionato, ma scelto dal Re fra i consiglieri comunali, tornerà ad essere elettivo nel 1896, pur se alle dipendenze della prefettura (ex intendenza) preposta al governo della provincia.
Tratto dal libro “Storia di Villavallelonga” del prof. Leucio Palozzi